Mix Festival 2019


Da 33 anni il Festival MIX Milano di Cinema GayLesbico e Cultura Queer è il Festival del cinema della comunità gay, lesbica, trans e queer. E come ogni anno, Toh! selezione per voi i film imperdibili tra le sessantapellicole in programma. La 33a edizione del Festival MIX – battezzata #LoveRiot per celebrare i 50 anni dalle Rivolte di Stonewall – si terrà dal 20 al 23 giugno 2019 al Piccolo Teatro Strehler e al Piccolo Teatro Studio Melato.
festivalmixmilano.com

 

Benjamin
di Simon Amstell
UK, 2019, 85min

Benjamin è il primo lungometraggio di Simon Amstell, un autoritratto commovente e brutale sotto forma di commedia. Il film racconta la vita di un regista che​,​ come ogni essere umano​,​ ha aspettative e dubbi. Il Benjamin del film è interpretato da Colin Morgan, nei panni di un giovane filmaker​ ​con fantasie artistiche indie, che dopo un primo film calorosamente accolto sta lavorando al suo secondo progetto. Si percepisce in lui l’ansia di non essere adeguato alle aspettative del pubblico e teme che il suo secondo lavoro possa risultare spocchioso e pretenzioso. La sua mente sembra finalmente placarsi quando si innamora di Noah​,​ un giovane cantante interpretato da Phenix Brossard, ma le sue insicurezze sono tangibili anche in questa love story​: poiché non può garantirne il successo, passa da attimi di puro entusiasmo ad altri di terrore. L’abilità di Amstell è stata quella di aver creato oltre al protagonista​ ​Benjamin, una serie di personaggi secondari che passano nella vita del protagonista e che fanno sorridere rendendo il quotidiano piacevole. Se questa pellicola​ ​ha una vena autobiografica tra il protagonista​ ​e il regista, ha anche una grande differenza tra loro​:​ Amistall ha sicuramente​ ​fatto un buon film • [Alex Vaccani]


Carmen y Lola
di Arantxa Echevarría
Spagna, 2018, 1h 43min

Due ragazze gipsy si incontrano a un mercato rionale e si innamorano. Non è certo un innamoramento semplice, il loro: Carmen si deve sposare, Lola capisce di essere lesbica innamorandosi di lei e da questa viene poi rifiutata. Si potrebbe pensare che l’amore non sia destinato a sbocciare, ma il titolo ci rovina la suspense: Carmen capisce anche lei di essere lesbica e di essersi innamorata di Lola, che a quel punto si era ormai allontanata; c’è un riavvicinamento e poi di nuovo un allontanamento ma alla fine l’amore trionfa e non ci aspettiamo niente di diverso dal primo fotogramma. Guardando oltre la trama fin troppo lineare si nota l’attenzione alla psicologia dei personaggi: il lungometraggio è soprattutto un ritratto quanto mai schietto della cultura gipsy. C’è una maniacale attenzione da parte della comunità in cui le ragazze vivono alle male lingue. La ragazza ha infranto un matrimonio e questo non fa innervosire la famiglia meno della scoperta della sessualità immorale della figlia. Non c’è niente di edulcorato: la madre non approva, il padre è violento, i giovani sono disinteressanti e chi va controcorrente soffre. Ci aspettiamo, comunque, un lieto fine. C’è una positiva influenza reciproca tra le ragazze che le porta a prendere il coraggio di compiere scelte distanti da quelle della cultura dei genitori per aspirare a un futuro diverso da quello che loro si aspettano sé. Una tenera storia d’amore che si lascia solo intravedere attraverso un roseto si spine e pregiudizi • [Chiara Papèra]


Docking
di Trevor Anderson
Canada, 2018, 4min

«Di recente, sono stato più interessato a superare i limiti del documentario d’essai personale», spiega il regista Trevor Anderson, «prendendo storie vere e usandole come trampolini di lancio per fantasie cinematografiche: “The man that got away” del 2012 era un musical su un mio prozio, “The little deputy” del 2015 è stato un western su mio padre. “Docking” è un horror fantascientifico sulla mia paura di uscire con qualcuno». Quattro minuti appena in cui si sente la sua voce fuori campo formulare tre frasi: sono sempre stato single: perché?, di cosa ho paura? E subito, per chiarire finalmente i dubbi, a dare un senso a tutto ciò, fa irruzione un gigantesco, fluttuante, drittissimo pene eretto: talmente realistico da farci chiedere se si tratti di realtà o CGI. Presto le domande diventano due, e i peni anche, sotto la musica disturbante di Lyle Bell mentre, come dice il titolo, i membri “attraccano”. Costata come cinquanta cortometraggi canadesi della stessa durata, questa follia (reduce dal Sundance) vede dietro la macchina da presa, tra gli altri, lo scenografo Todd Cherniawsky (scenografo di titoletti quali “Avatar”, “Star Wars” e “Alice in Wonderland”) e il make-up artist Christien Tinsley (un Oscar, due Emmy e settanta film): sotto caterve di foto di piselli fornite dall’autore, hanno impiegato quattro anni per preparare i 3D e tre giorni per girare la scena – che, srotolato il prepuzio, risponde proprio a quella domanda che si pongono in molti: di cosa ho paura? Vedere per credere • [Luca Fontò]


Fabulous
di Audrey Jean-Baptiste
Francia, 2019, 52min

Non lasciatevi ingannare dalla banalità del titolo di questo documentario sulla cultura nata attorno al vogueing: si tratta di lungometraggio intenso, introspettivo e ben strutturato. Protagonista è l’abilissima ballerina transgender Lasseindra Ninja che, dopo aver imparato il vogueing a New York City e averlo esportato in Europa, torna a casa nella Guyana francese per insegnarlo a un gruppo di ragazzi interessati tanto alla tecnica quanto alla sicurezza in sé stessi. Si intuisce subito come nella Guyana francese chi pratica vogueing sia percepito ancora come appartenente a una cultura sovversiva. I vari excursus sugli episodi di bullismo e sui crimini d’odio ai danni dei ragazzi non sfociano nel patetismo ma servono per immergersi nel punto di vista di un abitante del luogo. Vogueing non significa sfarzose ballrooms in cui ammirare paillettes e lustrini, ma un momento per trovarsi in estremo segreto e da usare come valvola di sfogo periodica dall’occhio giudicante dei coetanei. Quello di Jean-Baptiste è comunque un ottimo documentario sulla danza: quasi totalmente ambientato dentro la sala prove, documenta l’evoluzione delle lezioni, i miglioramenti, le prese di confidenza e coscienza. Si fa anche riferimento ai moti di Stonewall mai così attuali come nel 50esimo anniversario del primo pride iniziato da Marsha P. Jhonson: «non possiamo certo crearci il nostro spazio nel mondo urlando nelle strade», «e invece sì, proprio così è iniziato tutto» dice infatti l’insegnante a uno dei ballerini • [Chiara Papèra]


Four quartets
di Marco Alessi
Regno Unito, 2018, 12min

Giovane ragazzo gay, Raf esce con gli amici per andare in discoteca ma passa l’intera serata a guardarsi intorno per accertarsi di essere notato. Troverà pace (non prima di vari flashback e flashforward tra sogno e realtà) grazie alla venuta di un santone/ angelo della notte/ mentore/ ragazzo ubriaco a suggerirgli di lasciarsi andare e godersi il momento. Finalmente Raf potrà recarsi in una stanzetta asettica a danzare libero da ogni freno inibitorio insieme a una Drag Queen. Metafora forse un po’ esplicita di uno stereotipo gay: si esce per trovare qualcuno da portarsi a letto e la serata non inizia se non a quel punto; poco importa se si è in compagnia di amici di vecchia data o di leggiadre transvestites: il gay-medio non penserà ad altro che all’individuare all’interno del locale tutti quanti siano della sua sessualità. L’estetica è ipnotica e quindi perché concentrarsi sul condensare una trama lineare in questi dodici minuti, quando la fotografia e il montaggio sono curati così bene da far passare la consequenzialità in secondo piano? Non di meno un corto generazionale. Un occhio tenero e naïf allo smarrimento e all’inadeguatezza. Un ottimo esercizio di stile ma non certo il materiale più innovativo né l’immaginario di cui la cultura maschia omosessuale aveva bisogno. Forse un corto che spronerà il pubblico a svincolarsi tanto dalla veridicità quanto dallo stereotipo della descrizione fatta di queste serate, che potrebbe avere quindi la stessa funzione del consigliere di Raf • [Chiara Papèra]


Los miembros de la familia
di Mateo Bendesky
Argentina, 2019, 86 min

Mia nonna aveva una casa in campagna in cui non c’era il televisore, dai rubinetti non usciva acqua pulita e la radio prendeva a malapena due stazioni. Mentre mia nonna travasava le dispense sostituendo alle padelle senza ormai più il manico gli utensili “buoni”, mia zia e mia madre schiacciavano le mandorle fresche, le mettevano a mollo nell’acqua, mio padre sradicava radici dal viale d’ingresso, qualcuno a turno preparava il carbone. Io e mia sorella, senza alcun modo fruttuoso di impiegare il tempo, frugavamo nei mobili e nei cassetti: sotto la polvere trovavamo foto dai bordi frastagliati, libri senza la sovraccoperta, 33 giri senza titolo, pupazzi, scatole di legno per il Domino… Il ricordo è affiorato prepotente davanti a Lucas e Gilda, fratelli post-adolescenti che litigano più spesso di quanto si abbracciano: tornano nell’alloggio al mare di famiglia per estinguere l’ultimo desiderio della loro defunta mamma: spargere i suoi resti in mare – anche se l’unico resto a disposizione è una protesi. Fra le stanze sotto sigilli di cui non usano il bagno, bloccati da uno sciopero dei pullman, Lucas e Gilda passano le sere praticando «computazionalismo, la magnetoterapia e gli avanzi della propaganda religiosa di auto-aiuto»: lui esce, lei rimane a casa; lui dorme fino a tardi, lei lo sveglia e gli fa storie; lui corre in spiaggia alla mattina, si imbatte in un ragazzo del paese. Lo sciopero prosegue. Lei ha un fidanzato che potrebbe aiutarli, molto più grande di loro. Lui è solo, poi non più • [Luca Fontò]


Rafiki
di Wanuri Kahiu
Kenya / Sud Africa / Germania, 2018, 83 min

Lei e lui si conoscono, si frequentano e si vogliono bene: ma non devono, perché sono figli di famiglie in combutta (“Romeo e Giulietta”), membri di clan in guerriglia (“West side story”, che di “Romeo e Giulietta” è il remake) o pieni di ormoni incompatibili (“Splendore nell’erba”); in classi diverse a bordo del Titanic, la primogenita di un sultano e un ladruncolo glabro, una bella e una bestia: il sentimento è sempre più forte dell’antropologia sociale per cui sappiamo che, a costo della morte, l’amore trionferà. Ma se ad amarsi fossero lei e lei? E se non fossero nell’isola di Manhattan ma in Kenya? Il Cinema ci ha insegnato anche che l’epilogo è inevitabile: prima la violenza, poi la fuga. E la violenza può venire dalla comunità bigotta e pettegola, come in questo caso, ma anche dalla famiglia stessa, come in “Carmen y Lola”, altro titolo presentato in questo festival e che dimostra come certi film (lesbo?) si facciano con lo stampino. Kena e Ziki sono figlie di due politici avversari, parlano inglese e swahili, una gioca a calcio coi maschi e l’altra balla nei parcheggi: eppure si conoscono, si frequentano e si vogliono bene. Il problema (qui come in “Carmen y Lola”) è che nel concitamento della disubbidienza ci si ama senza parlarsi: Ziki non sappiamo cosa voglia fare da grande, Kena non glielo chiede, troppo impegnata a baciarla a stampo. Certe relazioni, è vero, non hanno bisogno di parole: basti pensare a Ennis e Jack di “Brokeback Mountain”. Ma è vero anche com’è poi andata a finire • [Luca Fontò]


The ground beneath my feet
di Marie Kreutzer
Austria, 2019, 1h 48min

Giovane consulente aziendale, madrelingua tedesca e – naturalmente – bionda, si dichiara orfana e sola, e consacra ogni energia nel lavoro, raggiungendo anche le cento ore di incarico a progetto; con efficienza spietata, ci aggiunge quotidiane sessioni di cyclette, cene eleganti con colleghi ovviamente maschi e notti in alberghi asettici, dove si lascia andare alla relazione, tenuta ovviamente nascosta, con una socia praticamente sua superiore. Sembra di rivedere (l’inarrivabile) “Toni Erdmann”, tutto nichilismo ed estenuanti ritmi di lavoro: ma Lola, più giovane e più in carriera di Ines, invece che dal padre viene investita dal ritorno della sorella Connie, che dopo aver tentato il suicidio si ritrova – contro la sua volontà – ricoverata in un istituto dove, dice, le fanno mancare il cibo e abusano di lei. E qui il film cambia: mentre Lola riceve telefonate da Connie a tutte le ore, dalla clinica le assicurano che la degente non sia in possesso di telefoni cellulari e che venga sempre monitorata… La schizofrenia è ereditaria? La quarantenne Marie Kreutzer si perde fra le messe in scena (una sequenza di drammi in ufficio pare fiction TV) ma padroneggia l’animale femmina (cit.): soprattutto nel rapporto tra Lola ed Elise – che si insultano e poi fanno sesso, si inseguono nei bagni e poi si licenziano in riunione – ma anche nel rapporto fra Lola e i maschi: più che una storia intima di ordine e caos, tratteggia la condizione attuale della donna, con più di una stoccata al sistema patriarcale • [Luca Fontò]